Il Nobel per la Letteratura allo scrittore cinese Mo Yan

L’edizione 2012 del premio Nobel per la letteratura è andata allo scrittore cinese Mo Yan, autore di ‘Sorgo rosso’, ‘Grande seno fianchi larghi’ e il ‘Ravanello trasparente’.

Considerato uno dei più importanti scrittori e sceneggiatori cinesi, alle spalle ha una vita di privazioni. Infatti, come tutti quelli della sua generazione – è nato nel 1955 nella provincia dello Shandong – con la rivoluzione culturale ha dovuto interrompere gli studi per dedicarsi al lavoro manuale. Ha fatto il guardiano di mucche e pecore e per fuggire alla solitudine e alla fatica si è rifugiato nella fantasia. In seguito, dopo avere lavorato in una manifattura di cotone, si è arruolato nell’Esercito di Liberazione Popolare e, mentre era ancora un soldato, ha cominciato a seguire la sua vocazione di scrittore, tanto da guadagnarsi un posto di insegnate nell’Accademia Culturale dell’esercito. È diventato così uno degli scrittori più amati, autore di storie reali e magiche che lo hanno fatto paragonare a Garcia Marquez e anche a William Faulkner.Tra le sue opere più importanti, oltre a Sorgo Rosso, ambientato nella Cina rurale degli anni Venti, ricordiamo Grande seno, fianchi larghi, un diluvio di parole,cento personaggi da seguire nell’arco di oltre mezzo secolo, dalla società feudale degli anni Trenta al capitalismo di stato di oggi, passanfo attraverso i rivolgimenti dell’era maoista. Un romanzo monstre di 904 pagine, censurato in patria per la crudezza delle testimonianze e i toni corrosivi, in apparente contraddizione con il significato del suo nome. Mo Yan è infatti un nome di penna, lo pseudonimo di Guan Moye. Letteralmente si può tradurre con “colui che non vuole parlare”. Poche parole pronunciate, ma molte, moltissime, riversate sulla carta. Si esprime, infatti, nella scrittura dove la sua voce diventa un fiume potente, riconosciuta come tale in Cina e ora anche nel mondo. Perché? “Per il suo realismo magico che mescola racconti popolari, storia e contemporaneità”, spiega l’Accademia reale svedese che per la prima volta assegna un Nobel a un intellettuale cinese non dissidente.Almeno all’apparenza. Infatti, al contrario di Gao Xingjian, premio Nobel per la letteratura nel 2000, Mo Yan vive in Cina e le sue critiche alla società e al sistema politico cinese sono indirette anche se a tratti evidenti, come nel caso del recente Rane, libro dato alle stampe dopo dieci anni di lavoro e tre diverse revisioni. In cinese rana si dice wa, ma basta cambiare un accento per pronunciare bambino.E per essere trasportati nel cuore del romanzo, in una povera zona di campagna dove una dottoressa aiuta le donne a fare nascere i propri figli e a evitare gli aborti. Fino a quando la linea governativa non cambia: entra in vigore la legge del figlio unico e la dottoressa cambia il suo lavoro. Con la stessa identica determinazione che prima dedicava alle nascite. Il dolore procurato dalla politica di pianificazione famigliare, in vigore da trent’anni, è messo sotto accusa. Un atto coraggioso per uno scrittore apprezzato anche dall’establishment e che dimostra la sua indipendenza.È un intellettuale indipendente ma certo non esplicito come Liu Xiaobo, che ha avuto il Nobel per la pace del 2010 e che sta scontando una condanna a 11 di prigione per aver criticato il sistema a partito unico. Eppure, nelle interviste rilasciate in Italia, ha sempre parlato del suo paese con un occhio critico. “Io penso che la letteratura deve presentare la realtà di un dato paese – ha detto a Repubblica nel 2002 – Ora c’è la modernizzazione, e va bene, a Pechino abbiamo i grattacieli, prima si viveva nella miseria, nessuno stava bene, né gli operai , né i contadini, né i soldati, ora c’è chi sta meglio, qualcuno sta meglio. Ma se la cultura muore, come si può stare meglio? Così posso dire che sono pessimista, nelle campagne la gente è ancora molto povera, tutti pensano a cose materiali. Certo, rispetto a cinquant’anni fa c’è stato un cambiamento ma cambiare non è sempre migliorare, il che non significa che io voglia tornare indietro, no. Ma senza cultura la gente avvizzisce. E che si può fare? Io penso che non si può andare avanti così”.Una dichiarazione che ben riflette la sua scrittura: non critica gli eccessi, si limita a raccontarli, descrivendone gli effetti sulla pelle delle persone, inserendo spesso tra i protagonisti un seme straniero, come se descrivesse una società arcaica che si sta lentamente aprendo, che vive in bilico tra il vecchio e il nuovo. E proprio per questo suo sguardo, rivolto anche alle origini, molti critici preferiscono considerarlo esponente della corrente letteraria cinese della “ricerca delle radici”. Lui stesso ha spiegato di volere dissodare in profondità la terra dove è nato e cresciuto, perché in caso contrario ritiene di non potere avere radici profonde. Indispensabili per “l’uomo che non vuole parlare” e che affida alla sola scrittura il racconto della Cina che è stata e che si sta, dolorosamente, trasformando.

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