“Il desiderio di essere come tutti”, Francesco Piccolo

Un romanzo di vita che narra la formazione di una coscienza dalla giovinezza all’età matura. E, insieme, una lunga riflessione su un’epoca: la nostra.

I funerali di Berlinguer e la scoperta del piacere di perdere, il rapimento Moro e il tradimento del padre, il coraggio intellettuale di Parise e il primo amore che muore il giorno di San Valentino, il discorso con cui Bertinotti cancellò il governo Prodi e la resa definitiva al gene della superficialità, la vita quotidiana durante i vent’anni di Berlusconi al potere, una frase di Craxi e un racconto di Carver… Se è vero che ci mettiamo una vita intera a diventare noi stessi, quando guardiamo all’indietro la strada è ben segnalata, una scia di intuizioni, attimi, folgorazioni e sbagli: il filo dei nostri giorni. Francesco Piccolo ha scritto un libro anomalo e portentoso, che è insieme il romanzo della sinistra italiana e un racconto di formazione individuale e collettiva: sarà impossibile non rispecchiarsi in queste pagine (per affinità o per opposizione), rileggendo parole e cose, rivelazioni e scacchi della nostra storia personale, e ricordando a ogni pagina che tutto ci riguarda. “Un’epoca – quella in cui si vive – non si respinge, si può soltanto accoglierla”.

Recensione Panorama.it (Michele Lauro):
Qualcuno era comunista, cantava Giorgio Gaber nel celebre monologo-canzone, perché Berlinguer era una brava persona. TUTTI, l’aggettivo che qui campeggia in copertina, era il titolo cubitale dell’Unità il giorno dei funerali del leader Pci, 14 giugno 1984.
Nell’antinomia – politica, esistenziale, narrativa – fra Qualcuno e Tutti si situa il centro affettivo di Il desiderio di essere come tutti , romanzo-confessione che semina di dubbi il cammino di una generazione. Con parole finalmente libere, liberate dal senso di tragedia, Francesco Piccolo ricompone i tasselli della cultura di un’epoca. Antinomia: coesistenza di una tesi e un’antitesi apparentemente contraddittorie. Ci sono stagioni della vita, per esempio l’adolescenza, in cui le antinomie non sono accettabili. Nel processo di crescita tutti abbiamo attraversato, e poi superato o non superato, la fase dell’assoluto. Qualcuno era comunista, diceva infatti Gaber, perché si sentiva solo. E ha desiderato essere come tutti, cioè appartenere al gruppo di tutti coloro che lottavano per un mondo giusto. Che non erano quindi tutti ma, per meglio dire, sembravano la parte migliore dei tutti. Tutti: aggettivo labile, perennemente a rischio di scissione. Dagli anni della giovinezza all’età matura lo scrittore indaga il nocciolo di una sostanza umana fatto invece di solitudine e incertezze, debolezze e cadute. Quante volte abbiamo desiderato trovarci al centro esatto delle cose mentre una sorte più laterale ci consentiva al massimo di esserne sfiorati, di trovarci a metà strada fra il coinvolgimento totale e l’estraneità? Di diversità e solitudine e (frustrato) desiderio di essere come tutti, come aveva capito Natalia Ginzburg la cui citazione in epigrafe è la perfetta sintesi di tutto il libro, “è fatta la nostra infelicità”. Ma proprio tale infelicità “forma la sostanza migliore della nostra persona ed è qualcosa che non dovremmo perdere mai”.
Lo sguardo di Francesco Piccolo indugia sugli ultimi quarant’anni della storia d’Italia. La vita pura: Io e Berlinguer. La vita impura: io e Berlusconi. Due fasi politico-esistenziali racchiuse in un continuum narrativo empatico e avvincente. Il mondo è manifestamente raccontato a partire dall’interpretazione del mondo da parte di quel sé che ne ha fatto (ne sta facendo) attivamente parte, e intanto vive e cambia (si innamora, si sposa, fa un lavoro gratificante, diventa padre, va alle feste degli scrittori, si sente appagato e un po’ felice) dentro quel mondo che invece non cambia come lui avrebbe voluto. Qualcuno era comunista, perché era così ateo che aveva bisogno di un’altra chiesa. Piccolo sviluppa l’intuizione gaberiana individuando nel mito della purezza l’antico complesso della sinistra: sentirsi un’oasi abitata dai migliori. In parallelo procede a sdoganare la superficialità come opzione esistenziale accettabile, consolatoria, consigliabile. È una finzione ovviamente, ma serve come chiave per liberarsi dal lutto e affrancarsi dal senso di colpa per aver traslocato dalla parte della Ragione al gruppo misto di coloro che hanno trovato sollievo nella leggerezza. Dichiarandosi privatamente felici nonostante le imperfezioni del mondo. E pubblicamente corresponsabili della sua rovina. Oscillo tra considerare questo libro profondamente pessimista o sorprendentemente ottimista. Sbaglio, perché è costruito per sostare “dentro” questa dialettica, dove appunto risiede il nucleo del suo fascino insieme smaliziato e sincero. Piccolo conduce il lettore al guinzaglio davanti a quel punto solitario in cui si è da tempo rinchiuso Milan Kundera, lo scrittore che forse meglio di ogni altro nel dopoguerra ha saputo parlare di politica solleticando cuore e intelletto, e che non a caso viene abbondantemente citato come campione letterario del rifiuto di ogni ideologia.
Nella weberiana sfida fra etica dei principi ed etica della responsabilità, lunga come la storia della convivenza civile, per sentirsi libero lo scrittore ha scelto di uscire dall’isolamento del Giusto e piegarsi alla fragile correità con gli errori di chi si è preso la responsabilità attiva. Ammettendo, come Kundera, di avere dentro di sé sia la tesi che l’antitesi. Scrivendo questo libro.

 

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