“Splendore”, Margaret Mazzantini

Avremo mai il coraggio di essere noi stessi? si chiedono i protagonisti di questo romanzo. Due ragazzi, due uomini, due incredibili destini. Uno eclettico e inquieto, l’altro sofferto e carnale. Una identità frammentata da ricomporre, come le tessere di un mosaico lanciato nel vuoto. Un legame assoluto che s’impone, violento e creativo, insieme al sollevarsi della propria natura.
Un filo d’acciaio teso sul precipizio di una intera esistenza.
I due protagonisti si allontanano, crescono geograficamente distanti, stabiliscono nuovi legami, ma il bisogno dell’altro resiste in quel primitivo abbandono che li riporta a se stessi. Nel luogo dove hanno imparato l’amore. Un luogo fragile e virile, tragico come il rifiuto, ambizioso come il desiderio. L’iniziazione sentimentale di Guido e Costantino attraversa le stagioni della vita, l’infanzia, l’adolescenza, il ratto dell’età adulta. Mettono a repentaglio tutto, ogni altro affetto, ogni sicurezza conquistata, la stessa incolumità personale. E ogni fase della vita rende più struggente la nostalgia per quell’età dello splendore che i due protagonisti, guerrieri con la lancia spezzata, attraversano insieme.
La voce narrante del protagonista ha la limpidezza poetica, l’ingenua epicità dei grandi inetti della letteratura, s’impenna funambolica, s’immerge tragica e gioiosa nelle mille insenature di questo romanzo che è insieme classico e sperimentale. Un romanzo che cambia forma come cambia forma l’amore.

Recensione LaStampa.it (Bruno Quaranta):

Se una vocazione spicca tra le varie in Margaret Mazzantini, è sicuramente questa: sconvolgere la vita, di per sé già così vorticosa. Le va incontro impavidamente, istintivamente (anche istintivamente), interpretando i versi montaliani: «Ti piaceva la vita fatta a pezzi / quella che rompe dal suo insopportabile ordito». Come accostare Splendore, un ulteriore venire al mondo, qui di Guido e Costantino, il figlio del dermatologo e il figlio del portiere, socialmente diversi, sessualmente attratti? Forse non va accostato, un atto che è sinonimo di circospezione, forse bisogna fenderlo, spugneggiarlo, lasciarsene financo ossessionare.  Due cervelli doppi narra (è una narratrice, febbrile, ancorché vigilissima) Margaret Mazzantini. Che si sposeranno, Guido con una giapponese capace di appezzare la «leggerezza degli archi e dei fiati dell’ouverture del Flauto magico», con una scialba maestra Costantino, ma che non rinunceranno a cercarsi, a ri-cercarsi, sino alla resa, dopo aver conosciuto lo splendore nella tenda in riva al mare («La prima lezione me l’ha data una tenda» titola Pasolini una lettera luterana, diversa tenda, diverso contesto, diversi – di una esacerbata primitività – i ragazzi di vita, ma tant’è, un filo di suggestione…). Fra Roma e Londra si incontrano e si smarriscono i corpi e le menti di Guido e di Costantino. L’uno docente di Storia dell’Arte, sulla scia di uno zio, un critico passionale, lo «sguardo bruciante», un eco di Zeri. L’altro, ristoratore nel «ventre liquoroso» dell’Urbe. L’uno ateo, l’altro di impronta cattolica. L’uno riformato, l’altro abile e arruolato. Di diversità in diversità, fino al pubblico scandalo, tra Calabria e Puglia, là dove – ammonirà il commissario – «certe situazioni creano sconcerto». Quasi avallando la feroce lezione data ai «due ricchioni». Perché al Sud «essere frocio è come essere un cane da pecore tra i lupi». Una scrittura gravida, dispiega o squaderna Margaret Mazzantini. Un radar che capta le onde medusee, gorgonee, euredicee della condizione umana. Dove la pietas è rammentare, è rammentarsi, che «ogni vita ha il suo viale dove tramontano le lampadine». Che – come predicava zio Zeno – si può in exitu salvarsi (o trovare conforto) copiando «al meglio di te stesso una vita che ti soddisfa», o che, a parlare è un critico d’arte, ti è esteticamente, drammaticamente consona – Guido, lungo il Tamigi, dopo il golgota nel Meridione italiano, non si specchierà in Bacon, nei suoi «volti deformati, imbavagliati, i suoi corpi scomposti e mutilati, i suoi pezzi di carne da macelleria»? Un’odissea funesta e magica è il cimento di Margaret Mazzantini. Un’acrobazia sul filo della solitudine, via via conoscendone, aspirandone, patendone, mentre la si esorcizza, il richiamo fatale. Non c’è sole che non contempli l’eclisse. A ciascuno la sua privazione, l’anello mancante. Per Guido (e Costantino? Guido è dubbioso: «Siamo in stallo su cieli diversi»); ebbene: per Guido, il rovello è il figlio che avrebbe desiderato fare con l’amico, «quella privazione alla quale non avevo mai pensato adesso definiva la mia omosessualità». A Londra, un signore italiano «con le cravatte alla Scott Fitzgerald», suggerirà a Guido di rivolgersi a uno psicoanalista, invano. Eppure lo soccorrerebbe Augusto Romano, il Maestro junghiano che nel fresco di stampa Il sogno del prigioniero (Guido prigioniero di un sogno, Costantino chissà: non smetterà di soffrire? L’aut aut di Proust nella Prisonnière: «O cessar di soffrire o cessare di amare») invita a «farsi amica la solitudine, che è distacco, spoliazione, talora aridità , ma anche un fare spazio per accogliere chi si presenta e vuole raccontare una storia. Le storie sono meglio delle spiegazioni. Se siamo tristi e trasformiamo la nostra tristezza in immagini, diamo alla tristezza una possibilità. Sarà qualche volta possibile leggere in quelle immagini, stretti in un unico intreccio, il dolore per ciò che è morto o sentiamo che in noi deve morire, e la gioia aurorale per l’ignoto che lentamente, mentre ci viene incontro, assume forma».

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